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Il loop dei loop

Nel 1993 uscì il film Groundhog Day, diretto da Harold Ramis su una sceneggiatura di Danny Rubin. In Italia è noto come Ricomincio da capo – per qualche strana ragione, l’adattamento italiano di un’opera comporta spesso il cambiamento del titolo originale con uno più banale. Quel “ricominciare”, oltretutto, svela un po’ in anticipo l’architettura dell’intero film. Il protagonista, interpretato da Bill Murray in ottima forma, è infatti costretto per una ragione misteriosa a rivivere continuamente lo stesso identico giorno. Una giornata all’apparenza insignificante, che si ripropone senza alcun cambiamento: le altre persone si comportano sempre nella stessa maniera, e l’unico a essere consapevole di questa infinita ripetizione è esclusivamente il protagonista.

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Piccolo manuale illustrato per cercatori di foglie

Non basta mai la logica, che insegue le tracce dell’utilità e della bellezza, per fornire una spiegazione alla presenza di una pianta nell’immaginario umano, affamato di simboli e mitologie quanto il corpo lo è di cibo e di riparo.
Piccolo manuale illustrato per cercatori di Foglie (Il Saggiatore)

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Foglie e fogli: il legame fra alberi e letteratura non si ferma a una semplice assonanza, ma ha profonde radici e ramificazioni inaspettate. C’è un gesto, al tempo stesso ingenuo e poetico, che tutti noi ci siamo trovati prima o poi a compiere, e che testimonia con immediatezza espressiva questo rapporto: si raccoglie una foglia, e la si conserva fra le pagine di un libro. Si sottrae così una testimonianza dell’attimo al samsara vegetale, proprio come lo scrittore cerca di affidare alla scialuppa di un libro le riflessioni che altrimenti annegherebbero nell’oblio.

In concomitanza con l’autunno, che delle foglie è la stagione per eccellenza, Il Saggiatore ha pubblicato un curioso ed elegante libro, intitolato Piccolo manuale illustrato per cercatori di foglie (qui la scheda del libro sul sito della casa editrice). L’idea attorno a cui è costruito il testo è proprio quella della raccolta: nei vari capitoli si trovano infatti alcune pagine vuote, che il lettore potrà riempire con le foglie di cui si tratta. In questo modo ci si sente quasi coautori di un libro che finirà per essere diverso e personale per ognuno che vi collabora.

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Il “piccolo” del titolo non deve però ingannare. Le dimensioni sono agevoli, e il libro d’altronde è pensato per essere portato nello zaino, per raccogliere magari una foglia di faggio durante un’escursione nel bosco. Le sue pagine sono però ricchissime e dense, tanto di informazioni che di eleganti illustrazioni. I testi di Giuseppe Zare riescono a condensare secoli di letteratura e millenni di leggende, fioriscono di poesia, di scienza e di riflessioni; eppure riescono a coniugare la complessità in un discorso semplice ed elegante. In certi tratti le pagine si accendono poi di trascinante poesia, come in questa magistrale descrizione del tronco degli ulivi secolari: “Tanta ostinazione alla vita si esprime visivamente in tronchi cavernosi, tortuosi e caparbi, che sembrano ribollire dal suolo anziché levarsi verso il cielo, ogni foro la bocca di una maschera, un occhio cavo che osserva, ogni nodo un tormento, ogni liquida contorsione un secolo imbrigliato nel magma del legno.

Dalla betulla al ginkgo, dal pioppo al salice, la lettura scorre e avvince, tanto che pare di trovarsi davvero al cospetto dell’albero di cui si discorre – sensazione che verrà poi ulteriormente accentuata se, riaprendo il libro, troveremo fra le pagine la foglia dell’albero che abbiamo precedentemente raccolto e conservato.

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A rendere ulteriormente incantevole il piccolo manuale, troviamo poi le raffinate e sognanti illustrazioni di Sofia Paravicini. Colori eleganti, forme eteree ma al tempo stesso rigorose, sospese – proprio come gli alberi – fra concretezza e leggenda. Sfogliare le pagine illustrate è come aprire un piccolo ma prezioso scrigno di gemme. Ci avvolge quella sensazione di scoperta, a metà fra lo straniamento e la sensazione di reincontrare un vecchio amico: la stessa che si avverte quando si cammina in un bosco.

Orizzontale e verticale – le figure del potere

Alla base del nostro pensiero si trovano alcuni archetipi in grado di dare forma alle percezioni e ai sentimenti, plasmando intuizioni e convinzioni, organizzando il nostro modo di concepire il mondo e di vivere in esso. Si mostrano come forme o categorie all’apparenza semplici, persino banali, tanto che spesso li ignoriamo, dandoli per scontati. Ma se andiamo ad analizzarli, rivelano un’importanza fondamentale e ramificata, tanto nelle vite quotidiane che sul più ampio respiro della storia.

Uno di questi archetipi è la contrapposizione fra verticale e orizzontale. E’ al tempo stesso un fatto fisico – una geometria polarizzata dalla forza di gravità – che una categoria del mentale: una distinzione che si riflette in campi apparentemente molto diversi fra loro, come l’arte o l’organizzazione sociale. Elèuthera editrice ha pubblicato un’interessante e approfondito saggio su queste dimensioni dell’essere, a opera di Stefano Boni. Il titolo è “Orizzontale e verticale – le figure del potere“. (qui la scheda del libro sul sito della casa editrice)

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La melodia che manda in frantumi ogni ordine

…con corrosivi, che in Inferno sono salutari e medicinali, perchè disciolgono le superfici apparenti e mostrano l’infinito che vi era nascosto.” (William Blake, The Marriage of Heaven and Hell)

William Blake, illustrazione da Jerusalem (1821)

La realtà non è un dato di fatto, ma una costruzione, sia personale che collettiva. E’ un sistema complesso e palpitante, che ognuno plasma per sè, intrecciandovi osservazioni e pregiudizi, sentimenti, scoperte, errori, consuetudini. Una creazione che solo in parte è individuale, perchè va a scontrarsi, influenzarsi e rafforzarsi con quella degli altri, fino a creare il sentimento, in gran parte condiviso, di un “reale” collettivo.

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Gli amici simbolici e la famiglia asimmetrica

Il 18 maggio del 2021 è morto Franco Battiato. Poco dopo, il 5 luglio, è morta Raffaella Carrà. Notizie come queste esplodono come un fulmine a ciel sereno: dapprima le annunciano come un lampo, sui telegiornali e sui siti di informazioni; ma poi riecheggiano a lungo fra i social network e le discussioni private, proprio come il rimbombare di un tuono.

I due personaggi non potrebbero essere più diversi fra loro. Pur essendo quasi coetanei, e appartenendo grossomodo allo stesso periodo culturale, la loro fama fa riferimento a due diversi settori di pubblico, che solo in minima parte si sovrappongono. Tuttavia, la reazione popolare alla morte di entrambi è stata simile, e ha mostrato un tratto rilevante dal punto di vista simbolico: la maggior parte delle persone ha espresso non solo dispiacere, ma senso di perdita, quasi un lutto avvertito a livello personale.

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Non siamo che alberi

Quartieri bassi, insomma, le banlieu della Macchia, irte di cattive compagnie: bande di pungitopi rissosi, di stracciabraghe prepotenti, di rovi vagabondi, di ellera omertosa, e qualche volta persino la yucca, immigrata clandestina spesso segnalata a bazzicare questi poco raccomandabili paraggi. Fra cotanta teppa, i piccoli leccetti un po’ ci fanno e un po’ ci sono: buggerano gli agrifogli, s’imbrancano con viburni tracagnotti, si rissano coi giovani pinastri, intrecciano storiacce torbide con l’ellera assassina.
Filippo Ferrantini, Non siamo che alberi (effequ)

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Il dio degli incroci – recensione

I pioppi gettavano ombre oblique sulla terra. Il sole del pomeriggio illuminava le zolle. Dal suolo veniva un calore profondo, brulicante di insetti e di vita. Mi sono fermato, a un certo punto, e ho capito di non essere solo. Il campo era vivo. Non per gli insetti o le rane nel fosso. Era il luogo vivo di un suo spirito confuso nei blocchi di terra e nell’ombra tremolante. Una vita altrettanto reale delle piante che spuntavano dall’asfalto. Reale come sono reali le poesie, l’immaginazione, l’anima.
Stefano Cascavilla, Il dio degli incroci (Edizioni Exorma)

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Il tamburo e gli dei

L’unione degli opposti

Un dio dimenticato riemerge dalla notte della storia. Non ha la bellezza di una Apollo greco, né la composta solennità di un Osiride egizio. Anzi, a guardarlo pare un mostro. Ha il torso di un uomo, ma al posto delle gambe si snodano due serpenti. Ha la testa di un gallo, ed è pure armato di tutto punto: uno scudo per difendersi, e una frusta per attaccare. Persino il nome ha un che di arcano, quasi spaventoso: Abraxas.

Eppure questo dio misterioso ha conosciuto un grande successo, diffondendosi in un culto trasversale in tutto il bacino del Mediterraneo, per un periodo che va dal I al IV secolo dopo Cristo. Se ne trovano le tracce nei testi gnostici che ci sono pervenuti, ma soprattutto nelle gemme e nei papiri usati per pratiche magiche.

Poi, improvvisamente, Abraxas scomparve dalle scene, come un astro che tramonta all’orizzonte. Nonostante il suo impatto sulla cultura dell’epoca, di questo misterioso nume non ci resta che qualche accenno a margine nei grandi manuali della storia.

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