L’era del fuoco
Gennaio 2019. Ha inizio una terrificante serie di incendi che devasta l’Amazzonia, mandando in cenere novecentomila ettari di foresta. Soltanto in ottobre la situazione tornerà sotto controllo, ma il disastro ormai è irreversibile.
Aprile 2019. Brucia il tetto della cattedrale di Notre-Dame. Il mondo segue in diretta l’incendio, fino al catastrofico crollo della volta.
Luglio 2019. A bruciare è la Siberia. Il fuoco dura diversi mesi, rovinando 3 milioni di ettari di foresta.
Novembre 2019. L’incendio divampa in Australia. A tutt’oggi le fiamme non sono ancora state spente. Dieci milioni di ettari sono bruciati. Il fuoco assedia le città, il fumo oscura il sole. Secondo alcune stime, l’incendio ha strappato le vite di mezzo milione di animali – quasi un enorme, agghiacciante sacrificio.
I singoli eventi non sono legati fra loro, non c’è una correlazione diretta fra un fuoco e l’altro. C’è una radice comune di avidità e incuria, è vero; c’è miopia, ricerca di guadagno immediato, ostinazione ad ignorare le conseguenze delle proprie azioni. Ma le mani che hanno incendiato l’Australia non sono le stesse che hanno dato fuoco alla Siberia. A meno di cedere a deliri cospirazionisti, non c’è una società segreta che ha scelto di bruciare l’Amazzonia, o Notre-Dame, magari per mandare chissà quali messaggi, o per celebrare improbabili rituali.
I quattro grandi incendi, dunque, sono affini, ma non riconducibili alle stesse cause immediate. Tuttavia la sensibilità collettiva li ha accolti come segnali coerenti e legati fra loro. Di più, nell’immaginario pubblico assumono l’aspetto di veri e propri attacchi, un’offensiva di un oscuro nemico contro il pianeta e l’umanità intera.
E’ interessante rilevare che, in reazione a ognuna di queste catastrofi, sono state organizzate sui social network delle reti di preghiera, degli eventi collettivi per chiedere (a Dio, alla Dea o agli dèi, all’Universo o a chi per lui) la pioggia, la fine degli incendi.
Come succede sempre in certi casi, c’è chi irride queste preghiere. In parte – duole ammetterlo – colgono nel segno. E’ fin troppo facile, infatti, che la preghiera diventi un mezzo per sgravarsi la coscienza. Sento di avere una responsabilità, avverto una colpa, magari vaga e minuscola, ma comunque bruciante. Eppure non so che fare, o non posso fare nulla, o ancora potrei ma forse non voglio, non sono disposto a fare le rinunce necessarie. E allora prego, o medito, entro in trance sciamanica, qualsiasi cosa pur di sentire che ho fatto qualcosa, che non sono rimasto con le mani in mano.
Non intendo certo dire che la preghiera – o qualsiasi altro atto spirituale – sia inutile. Anzi. La vera preghiera non è mai auto-assolutoria, non è una fuga, un autoinganno. Al contrario, il suo vero valore, anche nella vita quotidiana, è di accordare l’anima al mondo esterno, anche per giungere a una soluzione: si risolve nello spirito il nodo simbolico, e da lì si passa ad affrontare la sua espressione nel mondo esterno.
Ma torniamo al fuoco. Le preghiere, la disperazione impotente, gli appelli sui social network, dimostrano che gli incendi non sono solamente un disastro ambientale, ma anche un grande evento nella psicologia di massa. Potremmo definirla una catastrofe psichica collettiva. Una tragedia che va a collocarsi nella complessa costellazione simbolica della crisi ecologica. Non è un caso, forse, che il celebre libro di Greta Thunberg si intitoli proprio “La nostra casa è in fiamme“.
(Lo ripeto, a scanso di equivoci: se parlo di un fatto o di una situazione qualificandola come “simbolica”, non intendo certo affermare che sia irreale, o solamente psicologica – al contrario.)
La sera del 5 gennaio, nel mio paese, si organizzano le Seime: dei grandi falò rituali, alla vigilia dell’epifania. Un’occasione di festa, una tradizione antica ma ancora vissuta e partecipata.
Quest’anno, tuttavia, sono spuntati dei commenti su Facebook che dimostrano come la sacralità del fuoco stia passando in secondo piano, quasi eclissata dal suo aspetto più negativo e spaventoso.
C’è chi vede in questo fuoco di festa un riflesso dei grandi incendi di cui abbiamo parlato: “Sì, certo che tra queste pire, e quello che succede in Australia oppure in Amazzonia, diciamo che dobbiamo sentirci orgogliosi e coerenti,vero?”
C’è chi vede nella Seima una fonte di incendio. Uno commenta “Questa foto è incitamento all’inquinamento atmosferico“, un altro chiede “E le PM10?“.
Si tratta di commenti assurdi, esagerati, privi di una base logica; da commenti su Facebook non ci si può aspettare di più, d’altronde. Ma non vanno ignorati: sono infatti sintomi importanti, espressioni di un sentire che forse oggi è ancora poco diffuso, ma che in futuro potrebbe prendere piede.
Incendi devastanti, falò rituali che spaventano, un oscuro bagliore nell’anima. Questi grandi e piccoli segnali non sono che prove circostanziali, certo. Non voglio fare come certi simbolisti, che da pochi disparati indizi traggono teorie di ordine generale sui grandi movimenti dell’inconscio collettivo. Tuttavia non bisogna neanche farsi sfuggire segnali di questo tipo. Teniamo gli occhi aperti: forse il prossimo simbolo che dominerà la nostra era sarà il fuoco. Non è una cosa da sottovalutare, non è “soltanto un simbolo”. Quando un’immagine domina la mentalità collettiva, passa fin troppo facilmente alla realtà materiale, ai fatti concreti. E a quel che possiamo vedere ora, questo fuoco non sembra affatto benevolo – non il tepore del focolare, nè la luce di Prometeo, ma la fiamma divoratrice della Gehenna.
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