Il Dio che perdendo trionfa

Può Dio creare una pietra così pesante che nessuno – nemmeno lui – sia in grado di sollevarla?

L’idea che Dio sia onnipotente ha generato diversi paradossi di questo genere, su cui teologi e filosofi hanno a lungo discusso. L’onnipotenza è in conflitto con la logica umana, ma in fin dei conti è una sfida impari: se un dio trascendente può compiere ogni cosa, non sarà certo un ragionamento a fermarlo.

Antonio Canova, Creazione di Adamo, 1821-22

Antonio Canova, Creazione di Adamo, 1821-22

Tuttavia il paradosso ha una chiave di lettura più profonda, che può ribaltare la questione: nel simbolo della pietra creata, infatti, si cela proprio l’essere umano. Nella sua onnipotenza, Dio crea un essere libero: e così facendo, si spoglia della sua forza, per amore si scosta dalla sommità del suo trono. L’uomo è così libero che nemmeno Dio può piegarlo al suo volere. Se Dio fosse onnipotente, la sua creatura non potrebbe avere libero arbitrio; la stessa creazione dell’essere umano è dunque una forma di chenosi, uno svuotamento di potere con cui Dio abbandona la sua onnipotenza. Resta potente, si intende, ma non può più ogni cosa, proprio perchè vi ha rinunciato, col fine ultimo di donare la libertà all’uomo.

La libertà umana come sacrificio divino, un dono d’amore che comporta la perdita dell’onnipotenza. Anche la bontà divina, d’altronde, è incompatibile con un potere illimitato.

Se Dio è buono e onnipotente, come mai permette il male? Il male esiste, quindi o Dio non è veramente buono, o lo è, ma allora è impotente. 

Anche in questo caso, il paradosso si basa sul presupposto, del tutto discutibile, che la logica umana possa dettar legge nelle cose del sacro. Nuovamente, si potrebbe tentare di scavare più a fondo, cercando risposte inconsuete: forse Dio è buono proprio perchè permette il male. Forse un giudice inflessibile, giusto fino all’estremo, non permetterebbe nemmeno l’esistenza umana, potrebbe persino giungere alla decisione di cancellare la vita intera. Al contrario, la bontà divina è anche e soprattutto clemenza verso il male. Dio non elimina il male, altrimenti annienterebbe l’intera creazione. La Genesi in sè è un processo di chenosi, Dio nel plasmare l’esistenza si ritira dalla sua onnipotenza; e quello spazio che egli lascia vuoto, forse, è l’origine del male, e allo stesso tempo della nostra esistenza. No, Dio sarebbe giusto, ma non buono, se annientasse il male; al contrario, cerca di curarlo, lo conduce verso la via della guarigione tramite una scelta libera.

Dopo la creazione, dunque, Dio non è più onnipotente. A qualcuno sembrerà quasi una bestemmia. Il connubio fra la divinità e una forza invincibile è stato ripetuto nel corso dei millenni con tale insistenza, che ormai ci è quasi impossibile pensare altrimenti. L’Antico Testamento ci mostra l’immagine di un Dio forte e tempestoso, indomito, una volontà che non conosce argini. Ma la Bibbia non è un’opera univoca, è una testimonianza composta da miriadi di voci, fatta di apporti anche molto distanti fra loro. Anche qui, dunque, nel Primo Libro dei Re, troviamo un passo prezioso, che ci suggerisce l’idea di un Dio gentile, sussurrato, quasi fragile.
Il profeta Elia era in una grotta sul monte Oreb, quando sentì la voce del Signore comandargli:  “Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”

Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. 

Elia incontra Dio proprio lì, nell’aura tenui, nel mormorio di un vento dolce. Non una voce di fiamma, non il rombo distruttivo che scuote la terra, ma una parola appena sussurrata.

Creando l’uomo libero, Dio sceglie di rinunciare all’onnipotenza. Ma non è che l’inizio di un lungo processo che porta la divinità a spogliarsi sempre più della sua forza.
L’incarnazione è il momento decisivo di questo processo, che è al tempo stesso storico e metafisico. Così San Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, dice di Gesù Cristo:

Spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.

Per scendere nella carne umana, lo Spirito di Dio deve spogliarsi della propria forza, per non annientare la creatura con la propria luce. Nell’antichità, Semele pregò Zeus di rivelarsi a lei in tutto il suo splendore, senza alcun limite;  il dio, che aveva promesso alla donna di acconsentire a qualsiasi desiderio, fu costretto dal giuramento a obbedire. Semele morì sul colpo, schiantata dalla folgore.

Carlo Crivelli, Compianto sul Cristo morto (1485)

Carlo Crivelli, Compianto sul Cristo morto (1485)

Per redimere l’umanità, Dio porta la rinuncia di sè fino all’estremo, fino alla morte.
La nostra epoca ci mostra l’esito di un simile processo storico: l’idea stessa di Dio, ormai, è messa in discussione, viene erosa dalla conoscenza scientifica da un lato, dal benessere materiale dall’altro. Quella divinità che pochi secoli fa scuoteva le coscienze e faceva tremare gli ingiusti, ora non è che una reliquia, l’instabile chiave di volta di un’istituzione più politica che ecclesiastica. Non è anche questa una chenosi, un indebolimento progressivo con cui Dio man mano si affievolisce, anche nella nostra coscienza? E non potrebbe essere anche questo un gesto d’amore? Un Dio che sceglie di scomparire del tutto, per donare l’estrema libertà all’umanità.
Non c’è più, dunque, un Signore padrone del Cielo e della Terra, di cui temere, a cui affidarsi. Al contrario, è Dio che sempre di più si affida a noi, è l’essere umano che deve  assisterlo, accoglierlo, aiutarlo.

Nel Vangelo secondo Giovanni c’è un celebre passo, che si riferisce alla Passione del Cristo, ma che si potrebbe anche intendere come una profezia sul graduale affievolimento del senso religioso:

Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.

Il progressivo ma ineluttabile disfacimento della Chiesa, i compromessi con il potere terreno, a volte talmente sordidi da ricordare la putrefazione di un cadavere. Non potrebbero essere i segni di un ultimo svuotamento divino? Una dissoluzione tremenda e dolorosa, eppure necessaria. Una morte che darà frutto, forse in maniera del tutto inaspettata: allo stesso modo la straziante Passione portò Cristo a vincere sul Peccato, proprio nel momento della maggior debolezza.
Nel Vangelo secondo Matteo, c’è un’ulteriore conferma di questa necessità:

Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti.

La farina è la creazione, è l’essere umano, è il mondo frantumato dal mulino del diavolo. Il lievito è lo spirito, che cade e muore nel mondo, eppure proprio in questo modo lo trasmuta. La morte di Dio non è una fuga dal confronto col male; al contrario, è un dono di sè totale ed estremo. Non è un annientamento insensato. Dio si scioglie nella sua stessa creazione, sembra giunga a perdersi in essa, ma in realtà la trasforma da dentro, la cambia radicalmente, e così perdendo trionfa.

Se dunque oggi tutto sembra perduto, non bisogna disperare, ma tendere l’orecchio, fino a raccogliere le voci più umili, la sommessa invocazione degli ultimi, dei deboli. La salvezza non verrà annunciata da grida e squilli di tromba: sarà una parola flebile, come il mormorio di un vento leggero, eppure in grado di far risuonare come un cristallo l’intera creazione.

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