I confini dell’Uomo
L’Odissea racconta la nostalgia della patria ed il lungo ritorno verso casa. E’ il simbolo dell’essere umano che si sente estraneo al mondo che lo circonda, e che desidera riconquistare la collocazione e la dignità che gli spettano per diritto di nascita.
Il comandamento delfico “conosci te stesso” è in questo senso un ritorno alla condizione primordiale ormai perduta, e diviene affine al “ricordati chi sei veramente” delle dottrine gnostiche. Così, ad esempio, nell’Inno della Perla: “Mi ricordai che ero figlio di re e che la mia anima, nata libera, aspirava ai suoi simili“. Essere perduti nel mondo e dimenticare la propria identità sono due aspetti del medesimo smarrimento.
Nel ventiseiesimo canto dell’Inferno Dante incontra Ulisse. Ci troviamo nel girone dei consiglieri fraudolenti: il re di Itaca ha meritato la punizione eterna per gli astuti raggiri che lo resero famoso in vita.
Il sommo poeta elenca sbrigativamente le colpe di Ulisse, per soffermarsi su un altro racconto più degno di importanza: il viaggio verso le Colonne d’Ercole.
Il re di Itaca rimase lontano dalla sua patria per più di venti anni. La gioia del ritorno, però, non durò molto. E’ uno dei paradossi dell’anima umana: quando la vita è consacrata ad un obiettivo per un periodo così lungo, conseguire ciò che si desidera può essere un disastro. Dopo la gioia iniziale subentra infatti un senso di vuoto, perchè si perde la ragione di vita che per tutto questo tempo ha monopolizzato la mente.
“Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”
(Kavafis, Itaca)
Le raccomandazioni dei poeti in questo senso sono vane: Ulisse non riesce a rimanere fermo, ma deve trovare una nuova meta, anticipando così quell’insoddisfazione esistenziale che fu il tema portante del Faust di Goethe.
“Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.”
(Inferno, canto XXVI)
L’ultimo viaggio di Ulisse non conduce più verso casa, verso il simbolo di ciò che si è veramente, ma oltre. E’ la tensione a trascendere i limiti connaturati alla condizione umana; eppure anche questa tensione fa parte della natura dell’uomo.
Le Colonne d’Ercole vengono tradizionalmente identificate con gli opposti promontori dello stretto di Gibilterra. L’aspetto geografico è tuttavia una questione secondaria. Le colonne indicano infatti un limite concettuale, anzi, il limite stesso della conoscenza; lì termina la terra esplorata e si apre l’incognita. L’eroe pose le colonne come un monito per i marinai: oltre quella soglia si apriva un mondo precluso all’umanità. Sulle colonne campeggia l’iscrizione “Nec plus ultra“: limite estremo, invalicabile, che tuttavia suona come una sfida che infiamma l’animo umano.
Ulisse incita i suoi uomini a superare l’ultima soglia con parole che sono rimaste scolpite nell’immaginario popolare:
“«O frati,» dissi, «che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.»”
(Inferno, canto XXVI)
Passare le colonne d’Ercole significa uscire dalla sfera dell’umanità per entrare in quella divina. In un certo senso ciò comporta l’abbandono della natura umana.
Ciò che Ulisse trova oltre la soglia è la sua rovina: una punizione divina per aver sfidato il limite, per non essersi accontentato del posto che Dio o la natura ci ha assegnato nel mondo.
“Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.”
(Inferno, canto XXVI)
Obbedire al “nec plus ultra” e rimanere pavidamente al di qua del confine significherebbe però un tradimento dell’essenza umana perfino peggiore.
“Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine, il restare
sotto la ruggine opachi nè splendere più nell’attrito.
Come se il vivere sia quest’alito! Vita su vita
poco sarebbe, ed a me d’una, ora, un attimo resta.
Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
porta con sè nuove opere, e indegno sarebbe, per qualche
due o tre anni, riporre me stesso con l’anima esperta
ch’arde e desìa di seguir conoscenza: la stella che cade
oltre il confine del cielo, al di là dell’umano pensiero.”
(Alfred Tennyson, Ulisse)