Il Sacrificio del Figlio
1. Ifigena, Isacco, Cristo
Nella sua tragedia “Ifigenia in Aulide”, Euripide raccontò la storia di un doloroso sacrificio.
Durante la spedizione militare contro Troia, la flotta greca era all’ancora in Aulide, bloccata da una bonaccia.
L’indovino Calcante vaticinò che la causa di tale contrattempo era un misfatto compiuto da Agamennone: il re aveva infatti offeso Artemide, quando durante una battuta di caccia uccise un cervo in un bosco sacro alla dea. L’indovino aggiunse che la flotta greca non sarebbe mai riuscita a partire, se Agamennone non avesse prima sacrificato sua figlia Ifigenia alla dea delle selve.
Il re protestò, ma fu incalzato dagli altri comandanti finchè dovette cedere. Giunti al momento fatale, però, la dea fece scomparire la giovane, sostituendola con una cerva.
Il padre consegna la prole innocente ad una divinità che la reclama senza possibilità di appello; il nume cambia idea soltanto quando il genitore si arrende al terribile sacrificio. Saltano subito all’occhio le notevoli somiglianze con l’episodio del sacrificio di Isacco, raccontato nella Genesi (22:1-13):
“Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt’e due
insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutt’e due insieme; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato conle corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.“
Nel Nuovo Testamento il tema del sacrificio del figlio diverrà centrale: qui sarà Dio stesso ad offrire in sacrificio il proprio Figlio per la salvezza dell’umanità.
2. Il re che teme l’erede
Anche l’avvento del Cristo è preannunciato da un evento dello stesso tenore simbolico – la strage degli innocenti. Così viene descritta nel Vangelo secondo Matteo (2:1-17):
“Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo».
All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme.
[…]
Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi.”
Il re fa uccidere i bambini, perchè teme che fra di essi vi sia il nuovo Re destinato a sostituirlo sul trono. Anche questa vicenda ha una sua prefigurazione nell’Antico Testamento, nelle drastiche misure di contenimento che il faraone riservò ai nuovi nati d’Israele (Esodo 1:9-22):
“«Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese»
[…]
Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: «Ogni figlio maschio che nascerà agli Ebrei, lo getterete nel Nilo, ma lascerete vivere ogni figlia.»“
Anche la piaga finale con cui il Signore colpisce il popolo dell’Egitto è una strage degli innocenti: l’uccisione dei primogeniti può essere interpretata come una tremenda risposta all’empio ordine del faraone.
In via simbolica, il re che ha paura dei nuovi nati è un padre che ha paura del proprio figlio; è l’oggi, che ha paura di venir scalzato dal domani. In questo senso potremmo accomunare le stragi degli innocenti con le vicende familiari degli dèi greci.
Dalla Teogonia di Esiodo apprendiamo infatti che Urano confinava i suoi figli negli abissi della terra, man mano che nascevano. Il dispotico padre venne poi sconfitto dal figlio Saturno; ma anch’egli dimostrò lo stesso vizio, poichè per
paura di una profezia divorava la sua prole non appena veniva alla luce.
3. Fra l’assassinio e il sacrificio
Fra l’uccisione dell’erede ed il sacrificio del figlio c’è una certa continuità semantica, ma la natura dei due atti è diametralmente opposta. Qui c’è paura e sopraffazione, lì invece una tensione al divino, seppur combattuta e sofferta.
L’infanticidio simbolico è il disperato tentativo di resistere ad un cambiamento inevitabile. “Sacrificio” significa invece consegnare qualcosa alla sfera del sacro; sacrificare il proprio figlio significa allora rendere sacro ciò che
simboleggia il proprio futuro; in fin dei conti sia Ifigenia che Isacco ed il Cristo non incontrano nel rito la loro fine.
Fra i due aspetti contrapposti corre un intero spettro di sfumature, in cui si inseriscono molteplici ricorrenze, diverse sfacettature del medesimo simbolo.
Il sacrificio dei bambini era ad esempio molto diffuso nelle civiltà precolombiane dell’America centrale. Le tracce di questa pratica si incontrano nelle testimonianze raccolte da conquistatori e missionari spagnoli, ed anche le successive ricerche archeologiche hanno confermato, portando alla luce un’ingente quantità di resti infantili.
Indizi del sacrificio del primogenito si trovano anche nel folklore delle nostre regioni.
Nella raccolta di leggende “L’Anima delle Dolomiti”, Karl Felix Wolff tramanda il ricordo di un castello in val Gardena dalle fondamenta incantate: per renderle più salde, in esse venne murata viva una vergine.
Vi si potrebbe scorgere un’eco di antichi riti, in cui la fondazione di edifici o nuove città esigeva il sacrificio di un bimbo, spesso proprio il primogenito del fondatore.
Così si potrebbe interpretare la maledizione che Giosuè getta sulla città di Gerico, dopo la sua distruzione:
“Maledetto davanti al Signore l’uomo che si alzerà e ricostruirà questa città di Gerico! Sul suo primogenito ne getterà le fondamenta e sul figlio minore ne erigerà le porte!” (Giosuè 6:26)
Restando nella Bibbia, in più di un passaggio si accenna al culto di Moloch, dio fenicio a cui si sacrificavano i propri figli bruciandoli in un forno dalla forma di uomo-bue.
E significativo che per questo cruento sacrificio si usi il termine “passare” per il fuoco, come se fosse un guado fra le fiamme che conduce oltre ad una riva.
“Non lascerai passare alcuno dei tuoi figli a Moloch” (Levitico 18:21)
“Chiunque tra gli Israeliti o tra i forestieri che soggiornano in Israele darà qualcuno dei suoi figli a Moloch, dovrà essere messo a morte; il popolo del paese lo lapiderà.” (Levitico XX, 2)
“Giosia profanò il Tofet, che si trovava nella valle di Ben-Hinnòn, perché nessuno vi facesse passare ancora il proprio figlio o la propria figlia per il fuoco in onore di Moloch.” (2Re 23:10)
“Nell’anno diciassette di Pekach figlio di Romelia, divenne re Acaz figlio di Iotam, re di Giuda. Quando divenne re, aveva vent’anni; regnò sedici anni in Gerusalemme. Non fece ciò che è retto agli occhi del Signore suo Dio, come Davide suo antenato. Camminò sulla strada dei re di Israele; fece perfino passare per il fuoco suo figlio, secondo gli abomini dei popoli che il Signore aveva scacciati di fronte agli Israeliti.” (2Re 16:1-3)
La Bibbia non è certo un documento imparziale; Moloch era una divinità straniera, ed è quindi più che possibile che la testimonianza ebraica contenga un elemento di calunnia.
Tuttavia ciò non pregiudica la nostra ricerca sul nucleo del sacrificio del figlio: il simbolo si esprime infatti sia nella concretezza della messa in atto che nel campo più sfumato delle dicerie fantasiose.
E’ evidente come il simbolo del sacrificio del figlio eserciti una grande forza di attrazione; d’altro canto è persino superfluo ricordare l’orrenda immoralità del gesto. La proibizione, però, non fa che aumentare il perturbante fascino del delittuoso rito.
Accusare un nemico diviene quindi il modo per esprimere il simbolo senza doverne affrontare le responsabilità morali. E’ bene dunque non credere alla realtà storica delle calunnie; nella maldicenza però si esprime per vie traverse
un nucleo simbolico che vale la pena esplorare.
E’ il caso ad esempio delle “pasque di sangue”, un sanguinoso rituale di cui venivano accusati gli ebrei in Europa, dal medioevo fino a tempi recenti.Si credeva infatti che in occasione della Pasqua ebraica gli ebrei rapissero un bambino cristiano, per mescolarne il sangue nella preparazione del pane azzimo.

San Simonino, del cui martire vennero accusati gli ebrei di Trento – incisione tratta dalle Cronache di Norimberga (1493)
Nel nono libro dell’Ottavio, il cristiano Marco Minucio Felice registra una simile accusa, con cui i romani denigravano i cristiani dei primi secoli:
“Chi poi va dicendo che il loro culto concerne un uomo condannato a morte per un delitto e il legno lugubre di una croce, ascrive a dei corrotti scellerati rituali che ben loro si adattano, cioè che adorino quel che si meritano.
Quanto alla iniziazione dei novizi, le dicerie sono tanto esecrabili quanto risapute. Un piccino, ricoperto di farina per trarre in inganno gli incauti, viene posto dinnanzi a chi deve essere introdotto ai riti; il novizio è invitato a infliggere colpi, che ritiene innocenti, visto che in superficie c’è la farina, e il piccino viene ucciso da quelle ferite inferte alla cieca e senza consapevolezza.
Poi – orrore! – leccano quel sangue con avidità, dilacerano a gara quelle membra, con quella vittima stringono fra loro un patto, per la complicità in quel delitto si impegnano reciprocamente al silenzio. Questi sono i loro riti, più funesti di tutti i sacrilegi.“
A riprova della tenacia con cui il simbolo cerca di manifestarsi, potremmo ricordare come ancora nel XX secolo si accusasse i comunisti dell’Unione Sovietica di “mangiare i bambini”!
4. Le vie del simbolo
Il simbolo può manifestarsi secondo varie modalità, tutte dotate di una certa efficacia. Può essere esperito concretamente, trasformando l’immagine ancestrale in un’azione reale; oppure può essere semplicemente tramandato nei racconti dei miti; ancora, può essere di natura fantastica, ma creduto reale. C’è però un ulteriore modo di vivere il simbolo, vivendolo in prima persona, assumendosene le responsabilità spirituali senza per questo farsi carico delle funeste conseguenze insite nella concreta messa in atto.
Si tratta del metodo che Carl Gustav Jung chiamò “immaginazione attiva”. E’ una via di accesso alle profondità dell’inconscio, un metodo di introspezione tramite un dialogo paritario con le immagini ancestrali dell’inconscio
profondo. Uno dei punti cardini di questo processo consta nell’affrontare le figure dell’inconscio senza disprezzarle come mere fantasie, ma interagendo con esse come se fossero reali e vivendo di conseguenza le proprie azioni immaginali come se fossero foriere di responsabilità concrete.
Una delle manifestazione più vivide e profonde del sacrificio del figlio si trova proprio nel Liber Novus di Jung, in cui lo psicologo registrò le visioni della sua immaginazione attiva (Cap. XIII):
“Qualche passo più in là un grembiulino… e dietro al cespuglio il corpo di una bambina… ricoperto di orrende ferite… imbrattato di sangue… Un piede rivestito di calza e scarpa, l’altro nudo, maciullato e sanguinolento… La testa… dov’è la testa?… La testa è ridotta a poltiglia insanguinata, con frammenti biancastri di osso… Le pietre tutt’intorno sono imbrattate di
materia cerebrale e sporche di sangue. Il mio sguardo è avvinto dall’orrore.
Accanto alla bambina una figura velata, si direbbe di una donna, il volto coperto da un velo impenetrabile.
[…]
Lei: «Avvicinati. Vedi, il ventre della bambina è stato squarciato. Tirane fuori il fegato».
Io: «Non toccherò quel cadavere. Se qualcuno mi sorprendesse a farlo, penserebbe che sono l’assassino».
Lei: «Sei un vigliacco; prendi il fegato».
Io: «E perché mai dovrei farlo? È assurdo».
Lei: «Voglio che tu estragga il fegato. Devi farlo».
Io: «Chi sei tu che credi di potermi dare un ordine del genere?».
Lei: «Sono l’anima di questa bambina. Devi fare questo per me».
Io: «Non ci capisco niente, ma voglio crederti e fare questa cosa assurda e tremenda».
Afiondo la mano nelle viscere della bambina… Sono ancora calde… il fegato è ben attaccato… Prendo il coltello e lo libero dai legamenti. Poi lo estraggo e con le mani insanguinate lo porgo a quella figura.
Lei: «Ti ringrazio».
Io: «Che cosa devo farne?».
Lei: «Conosci il significato del fegato, con esso devi compiere la cerimonia sacra».
Io: «Di che cosa si tratta?».
Lei: «Prendi un pezzo di fegato, un pezzo per il tutto, e mangialo».
Io: «Che cosa mi stai chiedendo! È una spaventosa follia. Questo significa profanazione di cadavere, necrofagia. Mi rendi complice del più terribile dei delitti».
Lei: «Per l’assassino tu hai già escogitato nella tua mente i più orribili tormenti, per fargli espiare questo delitto. C’è un solo modo di espiare: umiliati e mangia…».
Io: «Non posso, mi rifiuto… Non posso aver parte in questa terribile colpa».
Lei: «Tu hai parte in questa colpa».
Io: «Io? Parte in questa colpa?».
Lei: «Tu sei un uomo, ed è stato un uomo a compiere questo delitto».
Io: «Sì, sono un uomo… Maledico lui perché è un uomo, e maledico me stesso perché sono un uomo».
Lei: «Allora… prendi parte al suo crimine, umiliati e mangia. Ho bisogno di questa espiazione».
Io: «Che questo avvenga per amor tuo, per te, che sei l’anima di questa bambina».
Mi inginocchio sulle pietre, recido un pezzo di fegato e me lo metto in bocca.
Le viscere mi si strozzano in gola… Dagli occhi mi sgorgano lacrime… Un sudor freddo mi ricopre la fronte… Avverto un insulso sapore dolciastro di sangue… Deglutisco con uno sforzo disperato… Non riesco… Provo e riprovo… Perdo quasi i sensi… Ecco, l’ho fatto. L’orrore è compiuto.”
Nello stesso testo, Jung interpreta la sua tremenda visione, fornendoci una lucida analisi della sua simbologia:
“Il sacrificio è compiuto: la creatura divina, l’immagine della forma data al Dio, è stata uccisa e io mi sono cibato della carne della vittima. Nella bambina, nell’immagine della forma data al Dio, erano racchiusi non soltanto il mio desiderio umano, ma anche ogni aspetto primordiale e le forze primigenie che i figli del sole possiedono come eredità inalienabile. Di tutto
ciò ha bisogno il Dio per nascere. Quando però è stato creato ed è fuggito via nello spazio infinito, allora abbiamo nuovamente bisogno dell’oro del sole.
Dobbiamo rigenerarci. Ma come la creazione di un Dio è un atto creativo di amore supremo, così la rigenerazione della nostra vita umana è un’impresa che nasce dal basso. Questo è un grande e oscuro mistero. L’uomo non può
compiere quest’impresa da solo; gli viene in aiuto il Maligno, che la compie al posto suo.“
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